Differenza, diversità: due parole a cui qualche decennio fa veniva attribuito un significato molto diverso da oggi, momento storico in cui non ci si limita a “tollerarle” ma ne viene riconosciuta la preziosità. Allo stesso tempo, però, la paura continua a fare capolino, e non solo rispetto ai “grandi temi” sociali (l’origine geografica, l’etnia, la religione, l’orientamento sessuale, le capacità fisiche o cognitive): l’incontro con la differenza, ben lontano dall’essere qualcosa di “altro” da noi, ci riguarda da vicino. Ed è qualcosa di estremamente difficile da affrontare nella vita quotidiana, dove uguaglianza sembra sempre più sinonimo di omologazione.
Lavorando con le persone e le famiglie mi sono accorta che in moltissime coppie è presente l’idea che per essere felici insieme, per andare d’accordo, occorre pensarla allo stesso modo. Al contrario, sopraggiunge il timore di essere troppo diversi per stare insieme.
“Mia moglie non è severa come me con i ragazzi, li sta rovinando“. “Ma dai! Sempre a coccolarli e a farli vincere, come affronteranno la vita quando saranno grandi? Per fortuna che ci penso io” “Come fai a non ricordarti come si chiama la migliore amica di tua figlia? Non ti interessa niente di lei?“
E ancora, nella coppia, una tipica serata infrasettimanale (e il prologo della terza guerra mondiale):
– “Stasera vai alla partita? Dai stai qui… Non facciamo mai niente assieme.”
– “Sai che lo sport è la mia passione. E che di cose insieme ne facciamo tante… Vieni anche tu? Facciamo qualcosa di diverso!”
– “No, sai benissimo che a me non interessa. E comunque chissà dove finiremo se tu continui ad avere i tuoi interessi e io i miei. Proprio non stai bene a casa vero?“.
Certo, rimane ancora valida la “buona regola” di mostrarsi concordi davanti ai figli: se il papà comunica la sua decisione e la mamma non è d’accordo, il ragazzo non lo dovrebbe venire a sapere perché davanti a lui il marito verrà appoggiato. Al limite dopo, in separata sede, i due adulti ne discuteranno tra loro (sarebbe bello avere una risposta concorde sempre già pronta su tutto, ma si sa che i figli hanno la capacità di sollevare proprio quelle questioni che non erano mai nemmeno passate per la testa degli ignari genitori). Inoltre, per quanto riguarda la coppia, sarebbe in effetti consigliabile che di tanto in tanto i due partner si incontrassero, magari scambiandosi anche qualche parola diversa da “passami il sale” e “domani andiamo a pranzo dai miei”, e se possibile che condividessero qualche interesse o momento piacevole durante la settimana (per inciso: stendere la lavatrice insieme non è omologabile a unico momento di condivisione).
Per come la vedo io, però, il punto è un altro: il tendere a mettersi in discussione come persone o come coppia quando si scopre che l’altro ha idee, attese, reazioni diverse da quelle che ci saremmo aspettati da lui, o da quelle che noi riteniamo “giuste”.
Qual è il modo giusto? Probabilmente entrambi: la mamma (o il papà, o il nonno, o la tata: chiunque senta questo stile come più suo) propone un modello relazionale basato sullo scambio e sull’affettività, il papà (o la mamma, o la nonna, o la zia) uno più normativo. Entrambi vogliono un gran bene ai loro figli e pensano di fare il meglio per loro: per dovere di cronaca, comunque, solitamente al risveglio in nessuno dei due casi vengono riscontrati particolari traumi.
E se fosse una ricchezza “pescare” nell’essere “troppo diversi”? Se fosse proprio questo ad insegnare ai figli che ci possono essere molti modi di affrontare le situazioni e ad accogliere quello che anche l’altro ha da dire, diventando loro stessi più flessibili e capaci di far fronte a situazioni e persone diverse?
Una volta ho letto di una coppia che si era separata dopo furibonde litigate focalizzate soprattutto sul fatto che lui lasciava le tazze nel lavandino invece di metterle in lavastoviglie. Troppo diversi per stare insieme? Andando a scavare un po’ più a fondo, emergeva che lei non si sentiva presa in considerazione da lui, che perseverava nel suo gesto nonostante sapesse che le dava fastidio, mentre per lui era diventata una questione di principio essere libero di fare quello che voleva senza essere ripreso. Purtroppo in quel caso la coppia aveva preso consapevolezza dei significati (diversi) che entrambi attribuivano alla tazza abbandonata solo dopo la rottura del matrimonio. L’autore dell’articolo si rammaricava di non poter tornare indietro: aveva capito che ognuno dava per scontato che il proprio modo di vedere le cose fosse l’unico giusto, attribuendo all’altro ripicche e sentimenti che però erano frutto del proprio modo di interpretare la situazione. Insomma, aveva capito che non era sposato con il riflesso di se stesso.
La cosa sembra talmente banale da darla spesso e volentieri per scontata, eppure non lo è. Magari uno lo sa in teoria, e poi nella pratica chissà di quante tazze dimenticate è fatta la propria quotidianità.
Qualcuno ha detto che l’amore è la capacità di perdonare le differenze, giorno dopo giorno. Il fatto è che stare nella differenza non è sempre facile, anzi: implica il tentativo di mettersi nei panni dell’altro, di fare spazio, di permettergli di essere se stesso mentre gli chiediamo di fare altrettanto con noi, e non sempre ci si riesce. A volte comporta l’accettare di non capire, e la scelta di fidarsi.
La differenza non è un lasciapassare per imporsi sul proprio partner e non significa necessariamente che non si è fatti l’uno per l’altro, come a volte mi viene confidato con la preoccupazione di avere fatto la scelta sbagliata, magari dopo molti anni di matrimonio. E se la differenza non fosse frutto di una scelta sbagliata, ma il punto di partenza per poter veramente incontrare l’altro, anziché noi stessi?
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