Vi siete mai trovati di fronte a un comportamento strano o immotivato di un’altra persona, senza riuscire a decifrarlo?
Vi siete mai ritrovati, stupiti, a chiedervi com’è stato possibile che in un qualche occasione abbiate fatto qualcosa che mai avreste pensato di fare?
Quante volte, in questi casi, vi è venuta la tentazione di liquidare tutto con un “questo è matto!” o con un “sono stupido” – giudicando/etichettando, ma senza capire?
In psicologia l’interpretazione del comportamento umano ha avuto una storia ricca e diversificata sin dall’inizio.
La prima svolta nel migliorare la comprensione di se stessi e/o degli altri coincise con la fondazione della psicoanalisi, più di un secolo fa. Era la prima volta che qualcuno si interrogava a fondo sulle motivazioni profonde e inconsce che stavano dietro a un certo comportamento (es. un lapsus, un sogno, un atto mancato). Tuttavia, in queste prime formulazioni, il processo rimaneva per lo più nelle mani del terapeuta che, pur sulla base della sua conoscenza della persona, offriva la sua interpretazione di quanto riportato dal paziente.
Nel tempo gli psicoterapeuti si sono accorti dei limiti di questa impostazione: anche il paziente poteva e doveva dire la sua su se stesso! Si è iniziato a vedere la psicoterapia sempre più come un’impresa condivisa, in cui il terapeuta e la persona che gli si rivolge collaborano attivamente alla comprensione del mondo di quest’ultima, ognuno con il proprio ruolo e le proprie competenze: il terapeuta esperto dei processi, delle tecniche e della relazione d’aiuto, il paziente esperto di se stesso.
In quest’ottica dietro ad ogni comportamento c’è un significato che lo sostiene, un’intenzione che lo guida, e per scoprirlo occorre interpellare la persona che agisce. Non esistono comportamenti stupidi, o illogici, ma esistono storie, significati e logiche personali in cui quei comportamenti assumono senso. “Prima di giudicare una persona cammina nei suoi mocassini per tre lune“, diceva un vecchio proverbio degli Indiani d’America: solo se capiamo il mondo dell’altro possiamo capire le sue scelte.
Comprendere i suoi significati e le sue intenzioni serve non a giustificare ma ad avere più possibilità di scelta e di azione: invece di attribuire all’altra persona il nostro punto di vista, possiamo chiedere all’altro cosa ne pensa, o perché ha fatto quello che ha fatto. La risposta potrebbe stupirci.
Allo stesso modo, un conto è dirsi ad esempio “non riesco mai a dire quello che penso alle persone, sono uno smidollato”, un altro è cercare di capire che cosa ci impedisce di farlo, cosa pensiamo che potrebbe succedere se lo dicessimo, a quale logica risponde questa difficoltà.
Questo non significa che siamo sempre consapevoli del perché facciamo quello che facciamo: spesso capita di aver bisogno di aiuto, di uno sguardo esterno in cui rispecchiarsi, di essere compresi da un altro prima di poterlo fare con noi stessi – e questo richiede un certo allenamento a guardarsi dentro. Ma questa prospettiva, in modo tanto semplice quanto rivoluzionario, ci può restituite il senso e la responsabilità della nostra storia: una storia in cui ci possiamo sentire di nuovo i protagonisti delle nostre scelte.