Mi capita, quando faccio formazione a scuola, che i ragazzi nominino qualche professore definendolo “quello che pretende”, “quello che rompe”, ecc.
Nominano lui/lei e non altri, magari più accondiscendenti e meno richiestivi.
Nel tempo mi sono fatta l’idea che, mentre si lamentano (e chi non l’ha mai fatto, durante la scuola…?), i ragazzi gli riconoscono un ruolo: è il prof. “scomodo” che rimane nella testa come persona più significativa. È il prof. che accetta di essere anche impopolare quello che ci si ricorda anche a distanza di anni, spesso ringraziandolo per non aver mollato.
Forse è proprio questa la differenza: in qualche modo i ragazzi sentono che lui/lei non molla. Crede veramente che ce la possano fare, che possano andare oltre loro stessi, ed è questo sguardo che permette loro di prendere consapevolezza delle proprie capacità e possibilità.
Invece chi si livella sul minimo sindacale, chi giustifica sempre, chi ha perso la speranza, chi ha paura di essere autorevole rischia di passare il messaggio contrario: non ti chiedo niente di più, perché penso che tu non ce la possa fare. Magari non è quello che pensa il professore, ma è il messaggio che arriva ai ragazzi.
Chiaramente questo meccanismo non vale solo a scuola, e non vale solo nel rapporto educativo.
Se pensiamo alle persone più significative nella nostra vita, probabilmente ci verranno in mente quelle che hanno saputo guardare al di là di quello che eravamo in quel momento e ci hanno offerto il loro sguardo perché anche noi potessimo vedere quante altre cose potevamo essere.
È lo sguardo del genitore che vede (e affronta) lo sbaglio del figlio, e lo fa tenendo presente nella sua testa l’adulto meraviglioso che un giorno quel ragazzino così impulsivo potrebbe diventare, invece di immaginare (per stanchezza, sfiducia nelle proprie capacità, paura…) un futuro in cui lui non cambierà mai.
È lo sguardo del partner ferito che non perde fiducia nella coppia che sono stati o che potrebbero diventare – e per questo continua a chiedere, a comunicare, a proporre, a parlare invece di chiudersi nel suo dolore.
È lo sguardo del capo che dà spazio ai suoi dipendenti, aiutandoli a vedersi parte di quello che costruiscono e quindi a dare senso al loro impegno, invece di rimandare l’immagine di persone inaffidabili e svogliate.
A volte le persone da sole non riescono vedere al di là dei propri limiti, dei propri difetti e delle proprie convinzioni su loro stessi; non riescono a intravvedere un futuro diverso dal presente, né percorsi alternativi per soffrire di meno e magari stare un po’ meglio.
Del resto, tutti noi facciamo fatica a immaginare ciò che non crediamo possibile.
Spesso, allora, è proprio questo gioco di sguardi, questa fiducia in quello che ancora non c’è ma che potrebbe essere, che permette di iniziare a vedersi in modo diverso e, a cascata, a fare scelte diverse.