Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo, scriveva Lev Tolstoj nell’incipit di “Anna Karenina”.
Sarà per questo che nella letteratura classica e moderna è così difficile trovare delle storie che parlino di coppie e di famiglie, se non felici, quasi? È perché sulla felicità non c’è nulla da raccontare? Perché non “fa notizia”? O sarà forse – come ho sentito dire da qualcuno – che se togliamo la patina superficiale da “Mulino Bianco” si finisce sempre con il trovare del marcio?
Pur amando il genio e la fine sensibilità psicologica di Tolstoj, non sono d’accordo con la sua affermazione iniziale. La mia esperienza di terapeuta, anzi, testimonia proprio il contrario: non c’è niente di più personale e unico di quando – magari a prezzo di grandi fatiche e di un lavoro intenso su se stessi, questo sì – le persone scoprono cosa significa stare bene nella propria coppia, nella propria famiglia. La felicità esiste, anche se certamente non ci piove dal cielo mentre ce ne stiamo con le mani in mano. Le coppie felici che conosco lavorano sodo, affrontano le proprie paure e i propri fantasmi, prendono decisioni coraggiose. Per questo non esiste storia familiare che sia uguale a un’altra.
Mettere continuamente l’accento sul dolore e la sofferenza può aprire la strada a un fraintendimento potenzialmente pericoloso. Può farci credere che stare bene in coppia o in famiglia sia un obiettivo irraggiungibile o che la parola felicità escluda problemi, incomprensioni, crisi, dubbi, scelte difficili.
D’altra parte, è proprio da questa “letteratura dell’infelicità” che spesso riusciamo a capire meglio non solo noi stessi, ma anche gli altri (il partner, i figli, i genitori, le sorelle o i fratelli): anche per questo è preziosa. Un grande scrittore riesce infatti a catturare quelle pieghe emotive, quelle domande non ancora formulate, quelle parole che ci sfuggivano ma con cui ora riusciamo a dare un nome a quello che sentiamo; delinea delle vite – che potrebbero anche essere le nostre – e la complessità dell’intrecciarle con quelle degli altri.
In particolare mi hanno colpito due libri che, pur descrivendo delle situazioni familiari a dir poco disastrose e lancinanti – il lettore chiuderà il libro con la sincera speranza di non arrivare mai a vivere relazioni di quel tipo, e accompagnato da emozioni forti – sono accomunati dallo sforzo di non appiattirsi su una sola voce narrante, ma di dare corpo al punto di vista di ognuno dei personaggi coinvolti. Stupefacente, in alcuni passaggi, è la diversità della visione di ognuno di loro su una stessa vicenda, su una stessa relazione, tanto che risulta difficile non domandarsi se il cuore del problema non risieda proprio nell’incapacità di capire che cosa passa nella testa dell’altro.
È lo sforzo di mettersi (almeno per un po’) gli occhiali dell’altro che spesso permette a una coppia o una famiglia in crisi di superare i propri problemi e di trovare una via d’uscita creativa, dentro e fuori i libri.
È con questo sguardo alle diverse prospettive che consiglio la lettura di “La donna giusta” di Sándor Márai e di “Lacci” di Domenico Starnone. Non aggiungo altre anticipazioni – toglierebbero gran parte del piacere di leggere – ma invito, una volta chiusi i libri, a provare a indossare i panni di chi ci sta vicino, proprio come fanno magistralmente gli autori di questi capolavori: a differenza dei protagonisti, ognuno chiuso in se stesso, noi potremmo scoprire qualcosa di nuovo.
Improvvisamente ho capito che non c’è nessuna persona giusta. Non esiste né in terra né in cielo né da nessun’altra parte, puoi starne certa. Esistono soltanto le persone, e in ognuna c’è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c’è tutto quello che ci aspettiamo e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto questo, e non esiste quella certa figura, l’unica, la meravigliosa, la sola che potrà darci la felicità. Esistono soltanto delle persone, e in ognuna ci sono scorie e raggi di luce, tutto…
Quanto si continua a cambiare anche in età avanzata, mi sono detto fissandolo per un attimo. Stavo per accantonare l’immagine quando mi ha colpito Vanda. Per una frazione di secondo ho avuto l’impressione di non conoscerla e mi sono meravigliato. Ho pensato alla persona che adesso dormiva in camera da letto, la persona che era mia moglie da cinquant’anni. Non mi risultava che fosse stata davvero come appariva in quelle immagini. Quanto di lei avevo lasciato in un canto dell’occhio senza farci caso?
Piaciuto l’articolo? Per rimanere aggiornati e non perdere i prossimi articoli è possibile iscriversi alla mia Newsletter a questo link.