Continua la carrellata di risposte alle domande sul lutto e sulla perdita che mi avete fatto tramite Facebook e Instagram che abbiamo affrontato in uno degli articoli precedenti.
Nel linguaggio tecnico, l’etichetta “lutto persistente e complicato” indica tutte quelle condizioni in cui le manifestazioni acute del lutto permangono per almeno 12 mesi dalla perdita di una persona stretta e causano un disagio significativo o la compromissione delle proprie attività quotidiane. Nella pratica clinica i terapeuti sanno benissimo che l’indicazione delle dodici mensilità è per lo più una convenzione: ci sono perdite che, per essere metabolizzate, necessitano di più tempo; oppure ci sono situazioni in cui l’impatto della morte di una persona (anche non particolarmente vicina) si fa sentire dopo anni, mentre lì per lì sembrava tutto sotto controllo.
È importante inoltre sottolineare che il dolore acuto, il senso di vuoto, la sofferenza che si prova nel rendersi conto che il proprio caro non c’è più, la rabbia per la sua assenza sono tutti vissuti che fanno parte del processo di elaborazione del lutto (come ho sottolineato nel precedente articolo) e quindi non vanno né repressi né tacciati a priori come esagerati o patologici.
Tenendo sempre presente che ogni esperienza scaturisce da un vissuto e dei significati personali, e quindi ci possono essere delle differenze sostanziali anche in situazioni apparentemente simili, recenti ricerche hanno messo in luce come i lutti socialmente non riconosciuti siano più a rischio di complicanze sia a breve che a lungo termine. Questo perché il lavoro di elaborazione del lutto è un processo anche sociale, che necessita di un riconoscimento interpersonale e di uno spazio “pubblico” in cui il dolore possa venire raccontato e risignificato grazie proprio alla presenza e al contatto profondo con altri. Se questo manca, perché la perdita viene automaticamente (e superficialmente) connotata come “non importante”, viene a perdersi un pezzo importante del processo.
I lutti meno riconosciuti sono spesso connessi alla perdita di un animale, all’aborto, al lutto perinatale, alla morte di persone discriminate.
Dall’esperienza clinica di moltissimi terapeuti, inoltre, emerge un altro fattore di rischio, questa volta connesso alla relazione con la persona che non c’è più: paradossalmente, quanto più è stata positiva e piena la relazione con lui o lei, tanto più la perdita per quanto dolorosa tenderà nel tempo a risolversi in un senso di continuità, di presenza e di vicinanza. Al contrario, quanto più la relazione è stata burrascosa, tormentata, ambivalente (ma non per questo meno significativa), tanto più sarà complesso sentire di poter tornare a investire nel futuro e nella vita.
Sicuramente quando si sente che il dolore che è troppo e non ce la si fa più; ma anche quando, pur riprendendo la propria vita di sempre, si percepisce che la perdita ha scosso qualcosa di profondo e di importante di sé, ha messo in dubbio delle certezze, ha aperto squarci sul futuro o rimesso in discussione il passato. Quando ci si accorge improvvisamente e dolorosamente che la relazione con quella persona non era affatto di indifferenza, come si era sempre pensato, quando la colpa che si sente di sottofondo non se ne va, quando la paura della morte (propria o di un proprio caro) fa perdere di vista la bellezza della vita e del vivere insieme; quando si ha la sensazione che nessuno o pochissimi capiscano la propria angoscia, il vuoto che è rimasto. Quando non si riesce più a sentire niente, o quando sono rimaste troppe cose in sospeso con la persona defunta.
Tantissime possono essere le ragioni per cui chiedere aiuto a uno psicoterapeuta esperto che possa aiutare la persona a tornare a vivere, non nonostante ma attraverso l’esperienza e la consapevolezza della morte.
Niente può riportare indietro la persona che non c’è più o ridare il tempo e la possibilità di fare “meglio”. E, tuttavia, la terapia può aiutare a chiudere quello che è rimasto aperto, a salutarsi laddove non si è potuto farlo, a chiedere scusa e riuscire finalmente a perdonarsi, a ricostruire e dare senso a una relazione che può essere stata anche complicata e dolorosa, ma non per questo meno importante e vitale, scoprendo che morte non è sinonimo della parola fine.
Lavorare con il lutto in psicoterapia non significa lavorare negando la morte, ma imparare ad affrontare la perdita e il cambiamento che questa comporta. Non si tratta di accettare passivamente che le cose siano andate così, ma di mantenere un legame con la persona scomparsa: paradossalmente, in moltissimi casi anche di lutto complicato, la fine può diventare l’occasione di ritrovarsi nuovamente.
Un lutto può essere l’occasione per guarire ferite del passato, recuperando o magari percependo per la prima volta un pieno senso del vivere. Attraverso la relazione terapeutica diventa possibile entrare in contatto con quelle parti di sé sofferenti cui normalmente si tende a non dare voce. Ascoltarle, dare loro il giusto spazio in un luogo sicuro ed empatico, può essere il primo passo per comprendere il significato che ha avuto per noi la perdita della persona cara all’interno della nostra storia di vita e di una storia con lui/lei, ma anche di accorgersi di ciò che ci bloccava magari molto prima della sua scomparsa e che il lutto ha contribuito a mettere in evidenza.
Le domande e le risposte finiscono qui. Anche in questo caso ricordo che in questa sede le risposte non possono che essere generali, perché non conosco la storia personale da cui sono scaturite; perciò non possono sostituirsi a una consultazione psicologica vis-a-vis in cui cliente e terapeuta possano collaborare per la comprensione profonda e personalizzata dei vissuti e dei significati relativi al lutto e/o alla perdita.