Conosci te stesso, recitava l’iscrizione del tempio di Apollo a Delfi. Ma come?
I modi per farlo sono tanti, tantissimi.
La finestra di Johari è uno strumento molto usato in psicologia. È costituito da un quadrante in cui vengono descritti vari aspetti della conoscenza di sé.
Esso presuppone che la conoscenza di sé sia funzione della relazione più che dell’individuo e infatti tiene insieme il proprio punto di vista e quello degli altri.
Le possibilità prese in considerazione nella finestra sono quattro:
1) quello che so su di me e che racconto agli altri
È l’immagine pubblica, formata non solo da quello che diciamo esplicitamente di noi ma anche da ciò che “raccontiamo” implicitamente con scelte, modi, gesti (ad esempio il modo di vestire o i luoghi che frequentiamo).
2) quello che non so su di me e gli altri sanno
È, ad esempio, il contenuto di tutte le storie che i genitori o i nonni raccontano su di noi quando eravamo piccoli, o delle storie familiari tramandate tra le generazioni: la nostra storia inizia prima della nostra nascita, ma noi ne conosciamo solo una piccola parte.
3) quello che so su di me e tengo per me
Ci sono delle cose che sono solo nostre e non vogliamo condividere con nessuno. Ma ci possono essere anche parti di noi che non ci piacciono tanto che cerchiamo di tenere nascoste per paura di essere giudicati.
4) quello che non so su di me e che anche gli altri non sanno
Rappresenta la zona cieca di ognuno, più o meno vasta a seconda della consapevolezza personale acquisita nel tempo riflettendo su se stessi. È, ad esempio, la parte di cui intuiamo l’esistenza con certi sogni, o quando si manifestano certi sintomi apparentemente a ciel sereno (attacchi di panico, sintomi psicosomatici, ecc.) o quando si percepisce un malessere confuso, difficile da definire.
Mi è capitato spesso di leggere che la psicoterapia si occupa soprattutto di quest’ultima finestra allo scopo di rendere l’ignoto un po’ più noto, pensabile, elaborabile. Questo era sicuramente vero quando la psicoterapia si stava formando come disciplina, soprattutto grazie al lavoro di Freud. Nel tempo, i terapeuti si sono resi conto che insieme ai pazienti, di fatto, si lavora su tutte e quattro queste parti. La divisione è solo “accademica” e ogni aspetto è profondamente connesso agli altri.
Il primo, “quello che so su di me e che racconto agli altri”, riguarda l’immagine che vogliamo dare all’esterno. O, in altre parole, il modo in cui vogliamo essere visti e percepiti. Accade talvolta che il “fuori” e il “dentro”, così come viene vissuto, non combaciano e si crea una frattura.
Alessandro, 24 anni, ha una vita piena di amici, occasioni per fare nuove esperienze, affetti familiari. Aggiorna costantemente i suoi profili sui social con foto in cui appare sempre più bello e felice, e così si mostra all’esterno. Solo che dentro di lui sente un vuoto che non sa spiegare, e pensa che pur essendo circondato da tante persone nessuno lo conosce veramente.
“Quello che non so su di me e gli altri sanno” è una finestra che può avere molte sfaccettature. Riguarda ad esempio l’impossibilità di controllare tutto quello che gli altri pensano di noi, ma anche le storie di altri che non conosciamo nei dettagli ma che ci riguardano eccome. Pensiamo a quanto ci hanno influenzato indirettamente le relazioni dei nostri genitori con i loro genitori o tra loro.
Francesca, 7 anni, da qualche tempo non sta mai ferma, ha sempre bisogno di qualcuno che le dia retta, altrimenti strilla e rompe tutto quello che ha a portata di mano. I suoi genitori si sono separati da poco e hanno tutt’ora una relazione burrascosa; si rendono conto che potrebbe essere questo il problema, anche se la bambina pareva aver accettato di buon grado la situazione.
Il terzo aspetto, “quello che so su di me e tengo per me”, può emergere in terapia quando ci si sente a disagio con una parte di sé (anche solo percepita) e si è terrorizzati che qualcuno possa scoprirla. È ad esempio la situazione di quella che viene gergalmente chiamata “sindrome dell’impostore”:
Bruno, 43 anni, ha raggiunto con le sue sole forze una posizione professionale di responsabilità e prestigio, eppure vive nel terrore che gli altri scoprano che in realtà è un buono a nulla e che non merita tutto questo successo.
L’ultima parte, “quello che non so su di me e che anche gli altri non sanno”, si assottiglia sempre di più con l’aumentare della consapevolezza. Questo processo si svolge lungo tutto il corso della vita e soprattutto durante l’adolescenza, quando iniziamo a conoscere meglio noi stessi mettendo in discussione quello che davamo per scontato. Ma, in modo approfondito e mirato, accade anche durante la psicoterapia, luogo per antonomasia dove nuove consapevolezze e nuove possibilità possono emergere.
Paola, 38 anni, non aveva idea del perché in certe situazioni le prendesse il panico. Un momento prima era tranquilla, e all’improvviso iniziava a sudare e respirare affannosamente, il cuore batteva all’impazzata. All’inizio credeva di essere pazza, ma gradualmente, grazie all’aiuto del suo psicoterapeuta, riuscì a comprendere che quel sintomo era il suo modo inconsapevole di dire no alle situazioni spiacevoli, dal momento che non poteva concedersi di farlo altrimenti.