Nell’articolo precedente ho parlato di buoni propositi, obiettivi mal formulati, e strategie (valide non solo sulla carta) per cercare di realizzare quello che desideriamo.
Come dicevo, a volte ciò che ci frena dal fare un cambiamento o provare a raggiungere un sogno non è tanto passare all’azione (sulla teoria siamo preparatissimi, e comunque online c’è un sacco di materiale da cui prendere spunto), ma un ostacolo di un altro tipo. L’ostacolo, direbbe qualcuno, siamo noi.
È quello che è successo a Ilaria***, una brillante ballerina che, a detta di tutti i suoi insegnanti, aveva un futuro di successo davanti a sé: teatri importanti, tournée internazionali, sicuramente qualche ruolo da solista. Lei amava ballare, era quello che faceva sin da piccolissima – aveva tre anni quando era comparsa nel suo tutù rosa al saggio di fine anno con le sue compagne d’asilo – e senza cui, ne era sicura, non sarebbe più stata se stessa. Quando ballava Ilaria si trasformava, da giovane donna timida e minuta diventava una vera e propria forza della natura: precisa, elegante, caparbia.
A poche settimane dall’inizio dei corsi nell’accademia che aveva sempre sognato, e in cui era stata selezionata senza troppe difficoltà, Ilaria ha un incidente in motorino. Poteva andarle peggio, dicono i medici al pronto soccorso, ma Ilaria deve comunque rimanere ingessata dalla vita in giù per molte settimane, senza contare quelle per la riabilitazione. Deve rinunciare all’accademia, almeno per quest’anno, eppure quando i genitori glielo comunicano sembra stranamente tranquilla. Smette di ballare, in realtà non ci prova neanche più, quando ha il via libera per poterlo fare. In quattro e quattr’otto si iscrive all’università, si laurea, va a convivere con il suo fidanzato storico, inizia a lavorare in un negozio del centro (“in attesa di trovare lavoro nel mio ambito”).
Quando arriva in terapia, sono passati una quindicina d’anni da quell’episodio e della ballerina piena di vita e di sogni di allora non è rimasto quasi nulla. Ilaria chiede aiuto perché il rapporto con il suo compagno non funziona più, gli dà la colpa dei suoi fallimenti e di tarparle le ali. È arrabbiatissima, perciò le chiedo cosa la fa arrabbiare di più. Mi aspetto che mi racconti di lui e invece, inaspettatamente, mi risponde che è incazzata principalmente con se stessa, perché dal momento dell’incidente ha smesso di lottare e ha dato la colpa di tutto questo agli altri, alla sua famiglia prima e al compagno poi.
“Come se fossero stati loro a farmi smettere di ballare, ma prima dell’incidente non avrei mai permesso a nessuno di dirmi cosa ero in grado di fare. In quel momento avevo paura.”
“Paura di cosa?”
“Paura di cambiare città. Di lasciare loro. Di confrontarmi con un contesto ad altissimo livello, e di scoprire che non ero all’altezza. O peggio che gli altri scoprissero che non lo ero. Perciò ho lasciato. Non avevo previsto l’incidente, ma ho preso la prima via d’uscita che mi si è presentata. Amavo la danza, ma non era un motivo abbastanza forte per lasciare tutto: la paura era più forte.”
Durante i mesi successivi Ilaria si impegna nel riscrivere il finale di una storia che sembrava finita così, quindici anni prima. La cosa più difficile per lei è perdonarsi di aver avuto paura. Riappropriarsi della propria quota di responsabilità, sia nelle vicende passate che in quelle presenti, e riscoprirsi libera. Anche libera di fuggire da qualcosa rispetto a cui non si sentiva all’altezza, ma sicuramente libera – ora – di scegliere su quale sentiero desidera proseguire.
***Nomi, eventi e dialoghi sono inventati da me, sulla base della mia fantasia ed esperienza clinica.