Una delle prime novità del 2019, per me, è stata l’inizio della collaborazione con Fisiofit, centro di riabilitazione e di attività motoria di Valdagno (Vi) coordinato e gestito da un team di fisioterapisti preparati, dinamici e appassionati del loro lavoro.
Il centro opera nel settore medico, riabilitativo, del dimagrimento, del fitness e del benessere della persona. Vi collaborano fisioterapisti, medici, dietisti, istruttori del movimento; io mi affianco a loro nel mio ruolo di psicologa psicoterapeuta.
Ma cosa c’entra la psicologia con la fisioterapia?
Gli ambiti in cui può intervenire efficacemente la mano esperta di un fisioterapista (talvolta con il supporto di una tecnologia adeguata) sono davvero tantissimi. Leggiamo sul sito del centro che “la Fisioterapia è una professione sanitaria che mira al recupero delle funzioni lese della persona con l’obiettivo di riportarla alle condizioni psico-fisiche ottimali per garantirle una vita quanto più dignitosa”.
Recupero, riabilitazione: sono queste le parole chiave della fisioterapia, che opera laddove vi sia stato un danno, una lesione, una rottura a livello fisico.
Un incidente, una malattia, una patologia degenerativa, un’operazione, un trauma possono rendere necessario un intervento fisioterapico, ma anche eventi più comuni legati alla postura scorretta, allo sport, al fisiologico scorrere degli anni.
Piccola o grande che sia, ognuna di queste situazioni ha una ricaduta (cioè assume un significato) a livello psicologico. La ricaduta psicologica, a differenza di quella fisica, non è direttamente proporzionale all’entità del trauma, ma dipende dalla possibilità della persona di elaborare quanto avvenuto.
Molti studi in letteratura evidenziano l’efficacia dell’intervento psicologico durante il trattamento fisioterapico, specialmente per quel che riguarda il riconoscimento delle emozioni e dei vissuti emergenti in fase di riabilitazione, l’accettazione della difficoltà o della patologia e l’elaborazione dei cambiamenti identitari e relazionali connessi, velocizzando così il raggiungimento degli obiettivi sul piano organico e di uno stato di benessere psico-fisico.
La vulnerabilità emotiva a cui è esposta la persona che ha subito un infortunio o che manifesta dolori cronici è un aspetto osservabile da tutti coloro che intervengono nella fase di riabilitazione. Talvolta la cronaca attuale ci parla di alcune eccezioni, come la promessa del nuoto Manuel Bortuzzo che, dopo essere rimasto paralizzato a causa di un proiettile, ancora sul letto di ospedale faceva coraggio alla mamma. Un’altra famosa atleta, Bebe Vio, quando racconta i primi momenti dopo l’amputazione subita a soli 11 anni a causa di una meningite fulminante, non nasconde di aver pensato al suicidio. Oggi il suo sorriso infonde allegria e speranza a tutti quelli che la vedono anche solo in foto, ma il suo percorso non dev’essere stato facile: oltre alla difficile e dolorosa riabilitazione, ha dovuto affrontare la perdita di parti del proprio corpo e dei propri sogni. Ha dovuto rielaborare il trauma di un cambiamento così radicale di vivere e di progettarsi nel futuro.
Questi sono gli stessi compiti che si trova a far fronte chiunque di noi viva una problematica fisica anche meno estrema che però, quando coinvolge il corpo, tocca sempre anche l’identità. Lo fa con intensità di volta in volta diverse, in modo transitorio o permanente, ma costringe a fare i conti con il modo in cui ci eravamo sempre pensati o con un cambiamento nella prospettiva esistenziale, aprendo a nuove domande su noi stessi e sulle nostre relazioni.
Un’esperienza di dolore, una malattia, un incidente scuotono tutto il nostro mondo. Ci mettono faccia a faccia con le nostre fragilità e i nostri limiti; ci fanno confrontare con l’idea della morte, magari per la prima volta, interrogandoci sul senso che vogliamo dare alla nostra vita. Abituati a misurare il nostro valore sulla base di quello che facciamo o dei risultati che otteniamo, possiamo metterlo in discussione quando vediamo che non siamo più capaci di fare le stesse cose di prima, di mantenere alti i nostri livelli di prestazione, e non sapere più dove ricaricare quella dose di autostima necessaria per stare bene. Oppure, temendo di pesare sugli altri, pensiamo che non ci staranno vicino nel percorso di riabilitazione o li allontaniamo noi stessi, aumentando il senso di solitudine.
Talvolta sono anche i familiari a sentirsi sopraffatti e impotenti di fronte alla sofferenza di un loro caro rispetto a cui non possono fare niente, se non aspettare, incoraggiare e sostenere. Gli equilibri in famiglia cambiano improvvisamente, e può essere difficile trovarne di nuovi.
In tutti questi casi un supporto psicologico che si affianchi all’intervento medico e riabilitativo può fare la differenza nell’aiutare la persona e chi la circonda ad affrontare quanto sta accadendo e a tornare a vivere, rimettendo in movimento un progetto esistenziale che si era inceppato.