“Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi. A seconda del tipo di sguardo sotto il quale vogliamo vivere, potremmo essere suddivisi in quattro categorie. La prima categoria desidera lo sguardo di un numero infinito di occhi anonimi. (…) La seconda categoria è composta da quelli che per vivere hanno bisogno dello sguardo di molti occhi a loro conosciuti. (…) C’è poi la terza categoria, la categoria di quelli che hanno bisogno di essere davanti agli occhi della persona amata. (…) E c’è infine una quarta categoria, la più rara, quella di coloro che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone assenti. Sono i sognatori”.
(M. Kundera, “L’insostenibile leggerezza dell’essere”)
Non siamo mai soli, neanche quando parrebbe proprio che non ci sia anima viva intorno a noi. Neanche i solitari più convinti sono mai veramente soli. Spesso la solitudine non viene scelta ed è fonte di angoscia e di dolore, magari dopo la rottura di un rapporto o la morte di un familiare, o quando ci si guarda intorno e non si riesce ad individuare nemmeno un amico a cui rivolgersi in un momento di difficoltà. Eppure neanche allora siamo soli: abbiamo sempre un “pubblico” da cui ci sentiamo guardati, e di cui cerchiamo lo sguardo.
Si tratta di un pubblico che non ha niente a che fare con i social network, la notorietà o simili (la precisazione è d’obbligo nell’era dell’iperconnessione e dei reality): non è uno sguardo che proviene da fuori, bensì da dentro. Chi si ricorda il mitico “coro” che Ally McBeal, la nota protagonista dell’omonimo telefilm, immaginava alle sue spalle per darsi coraggio nei momenti più difficili e decisivi della sua vita personale o professionale? Non faceva altro che dare voce (letteralmente) a un pubblico che la sosteneva. A quel punto poco importava contro chi doveva combattere, o cosa pensavano gli altri di lei: Ally sentiva che qualcuno era dalla sua parte.
Al di fuori del telefilm, a dire il vero, non mi sono mai imbattuta in persone che si sentissero meglio perché sorrette da un gruppo di sconosciuti immaginari (anche se per qualcuno potrebbe essere una tecnica efficace in alcune situazioni specifiche, come parlare in pubblico). Però ho incontrato genitori (giovani e anziani) che nonostante il grandissimo dolore della perdita di un figlio erano sicuri di poter contare ancora sul suo sguardo pieno d’amore, riuscendo ad andare avanti. Sportivi che durante la gara non sentivano più il clamore degli spettatori, ma unicamente la voce del proprio allenatore (o del proprio partner, o di un figlio) e proprio per loro volevano dare il meglio di sé. Adolescenti in procinto di fare scelte critiche – dalle conseguenze anche pericolose – che però erano guidati dagli occhi incrollabilmente fiduciosi di un genitore che non volevano deludere.
Purtroppo ho incontrato anche persone che non sentivano questi sguardi benevoli su di loro: bambini che si sgridavano con una certa severità quando sbagliavano (“cattivo!”), individui che non riuscivano più a ricordarsi il viso di un genitore perché la morte era arrivata prima che si fossero potuti riappacificare – ed è facile che a quel punto arrivi il senso di colpa, la sensazione che il proprio caro sia ancora arrabbiato con noi – oppure persone che si sentivano sempre escluse o messe da parte, perché una “vocina” dentro di loro (magari la propria stessa voce) continuava a ripetere che non valevano abbastanza o che non erano all’altezza della situazione. A chi non è successo di inciampare o di comportarsi goffamente in una situazione importante o tra sconosciuti perché ci si continuava a ripetere “non devi sbagliare, non devi sbagliare”, aspettandosi, per l’appunto, che il peggio sarebbe accaduto da un momento all’altro?
Di chi sono questi sguardi che ci portiamo dentro, dunque? A volte possono essere quelli di un “pubblico” in carne ed ossa che abbiamo avuto nella nostra vita e che abbiamo interiorizzato per orientarci nelle nostre scelte, persone per noi rilevanti in cui ci siamo specchiati nei momenti di crescita o di cambiamento per capire chi eravamo. “Papà, mamma, guardatemi!” strillavamo da piccoli mentre eravamo impegnati a vivere avventure straordinarie. Magari anche questi sguardi erano spaventati, influenzati a loro volta dalla paura di sbagliare. A volte, invece, si tratta del nostro stesso sguardo, benevolo o critico, spaventato o fiducioso. Credo che il punto, però, non sia tanto rispondere a questa domanda o, peggio, interrogarsi su di chi è la colpa se le cose non vanno (spesso di nessuno), quanto chiedersi “Da chi voglio essere guardato io, oggi?” “Da quale sguardo voglio lasciarmi influenzare?” “A chi voglio piacere?”. Perché, se è vero che non siamo mai soli, niente ci vieta di decidere di volta in volta a quale sguardo vogliamo dare rilevanza: potrebbe essere semplicemente il nostro.
Quindi pensiamo bene alla risposta che diamo a queste domande, perché potrebbe decidere della nostra vita.
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