La settimana scorsa, nella mia pagina Facebook, ho pubblicato alcune risorse per riflettere sulle parole con cui parliamo del coronavirus, in particolare sulle metafore che stiamo utilizzando.
La metafora della guerra sembra quella più diffusa: parliamo di combattere e di sconfiggere il virus, di lavoro in trincea, di battaglie, di vittorie, di perdite.
Più in generale, spesso è in questi stessi termini che si parla delle malattie, soprattutto quelle più gravi e con un decorso lungo e incerto come ad esempio il cancro.
Ho iniziato a studiare le metafore del nostro linguaggio circa 14 anni fa, mentre ero ancora una studentessa, perché mi rendevo conto di come il modo in cui parliamo delle cose influenza tantissimo come le viviamo, come ci sentiamo a riguardo, e perfino le scelte che facciamo. È un fenomeno che poi, nel lavoro clinico, ho potuto osservare in modo ancora più approfondito.
Certe volte rimaniamo incastrati nelle nostre stesse metafore, nelle immagini che utilizziamo per dare forma a qualche aspetto della nostra esperienza: è come se non potessimo vedere al di là dell’alfabeto che utilizziamo per rappresentarcela. Ma, per contro, trovare una nuova metafora può anche liberarci, aiutandoci a prendere in considerazione degli aspetti nuovi di quella situazione.
Ritornando alla malattia, che impatto ha utilizzare la metafora bellica da parte di un malato, dei suoi familiari o degli operatori medici?
Da una parte può servire a raccogliere tutte le proprie energie per farvi fronte, un po’ come se ci trovassimo sull’arena del gladiatore e dovessimo combattere con tutti noi stessi contro il nemico, la malattia. In questo scenario, come ci ricorda Susan Sontag, nessun sacrificio è considerato eccessivo, tutte le risorse vengono attivate per debellare l’avversario.
Dall’altra, molte persone che affrontano un percorso di cura cominciano a sentirsi a disagio quando qualcuno parla della loro malattia in questi termini. Perché una metafora di questo tipo prevede qualcuno che vince e qualcuno che perde (e chi sarà tra noi? Io o la mia malattia?). Perché “arrendersi” non è previsto, nemmeno per un momento; perché non lascia spazio alla stanchezza, allo sconforto, alla paura di morire con cui tutti a un certo punto del loro percorso si confrontano.
Chi cede sembra avere già perso, e al contrario esiste tutta una “agiografia” laica che porta esempi virtuosi di persone malate e poi guarite grazie alla loro determinazione, o che prima di morire hanno saputo trasformare se stesse e gli altri.
Ma ammalarsi, morire, guarire non è questione di eroismo. Spesso ha più a che fare con la cura, con la disponibilità di risorse culturali, economiche e sanitarie e, non per ultimo, di fortuna. Applicare la metafora della guerra a una malattia, ci ricorda Daniele Cassandro, significa caricare il malato di sensi di colpa, che è già di per sé un ostacolo al suo percorso di guarigione.
Nel post di lunedì ho proposto una metafora alternativa, quella della cura. Ma non è l’unica possibile. Con quali altre parole possiamo parlare della malattia? Quali immagini, quali metafore possono aiutarci ad affrontarla, sia che riguardi noi che un nostro caro?