“Mi spiace, non posso.”
Così Ulisse aveva sempre liquidato la richiesta della sorella di partecipare in qualche modo alla cura della madre, anziana e ormai quasi del tutto allettata, colpita anni prima da una forma di demenza che lentamente l’aveva trasformata. Della donna vigorosa, irruenta e severa con cui Ulisse era abituato a scontrarsi fin dall’adolescenza non era rimasto che uno scricciolino che a fatica riconosceva i volti delle persone un tempo familiari che la andavano a trovare.
Questa volta, però, non aveva potuto sottrarsi: nessuno, né la sorella, né i nipoti, né qualcuno tra i parenti che ogni tanto si offrivano di dare una mano, potevano essere presenti quel sabato. La signora che se ne prendeva cura ormai giorno e notte aveva avuto un imprevisto, sarebbe rientrata la sera ma occorreva qualcuno che stesse con la mamma e che si occupasse di darle da mangiare.
Entrando nella vecchia casa della sua infanzia Ulisse cominciò a sentire il cuore che batteva forte. Non voleva essere lì, in quel luogo dal quale era quasi fuggito appena aveva potuto. I suoi genitori non erano stati dei santi, suo padre era assente e disinteressato e la madre, rimasta sola a gestire una casa, due figli e la sensazione di aver fallito nelle proprie scelte, spesso risolveva i problemi che lui creava alzando le mani. Finché un giorno lui non reagì a uno schiaffo della madre con un altro schiaffo, che a ripensarci lo faceva ancora diventare rosso dalla vergogna, ma da allora lei non alzò più un dito contro di lui. Finché riuscirono, si ignorarono.
Solo che ora Ulisse non poteva più ignorarla. Ci provò, sistemandosi nell’altra stanza a fare le sue cose, ma il pensiero della madre di là nel letto non lo faceva concentrare.
Fu solo all’ora di pranzo che fu costretto ad avvicinarsi e ad accomodarsi vicino a lei. La sfiorò mentre le infilava il tovagliolo attorno al collo, perché non si sporcasse, e si ritrovò a pensare a quante volte l’aveva dovuto fare lei, quel gesto così banale, quando lui e la sorella erano piccoli. La madre lo guardava in silenzio – non riusciva quasi più a parlare ormai – e lui non sapeva se l’aveva riconosciuto. In cuor suo sperava di no, desiderava solo che quella giornata passasse il più velocemente possibile per poter tornare alla sua vita.
Solo che non era facile. Ad ogni boccone che le porgeva, sentiva un nodo in gola sempre più grande. Ricordava la paura che aveva avuto di lei, delle sue urla e delle sue botte – oh quanto l’aveva odiata per quelle botte! Ricordava tutte le volte in cui aveva desiderato che scomparisse, quand’era ragazzino, e quante volte avrebbe voluto scomparire lui per non sentire più niente.
La madre chiuse gli occhi, stanca. Lui posò il cucchiaio e prese la salvietta per pulirle la bocca. Era così inerme, ora, così bambina. I ruoli si erano invertiti, adesso lei non gli faceva più paura. Gli salirono le lacrime agli occhi, e sentì l’impulso di accarezzarla. In quel tocco – pelle contro pelle – si rese conto di essere ancora pieno di rabbia e di rancore verso di lei, ma forse ancora di più verso se stesso. Pensò che non era stata una buona madre, ma anche lui non era stato un bravo figlio. Che avrebbe voluto che tutto fosse diverso, e sarebbe potuto esserlo davvero se entrambi non fossero stati così testoni, ma a breve sarebbe finito tutto e non c’era più tempo.
È vero, pensò, forse un momento di tenerezza non può risarcire una vita di dolore, ma non è tardi per provare a perdonare e a perdonarsi. Chissà, forse l’amore è ciò che resta quando la vita, la malattia, la morte si sta portando via tutto.
[La storia è frutto della mia fantasia ed esperienza clinica e non racconta di persone, fatti ed eventi realmente accaduti]