“La mia amica/mio marito/un mio familiare sta male, credo che le/gli farebbe bene parlare con un terapeuta ma non vuole. Come faccio a convincerla/o?”
È una domanda che mi viene posta spesso, sia in terapia che qui sui social, ma anche da amici o conoscenti che sanno che lavoro faccio.
È anche una domanda da un milione di dollari: se vi siete trovati nella situazione, sapete quanto è difficile consigliare a qualcuno di cercare aiuto quando lui o lei, pur stando male, non lo prendono in considerazione o non sono ancora pronti a farlo. Quasi sicuramente, se si parte dal presupposto di convincere delle nostre buone ragioni, si farà un buco nell’acqua, o si finirà per litigare.
A volte però il malessere che si coglie nell’altra persona è davvero molto evidente, desta una forte preoccupazione, e girare la testa dall’altra parte non è un’opzione. Che fare, allora?
Nella mia esperienza vale la pena cercare di capire che cosa rappresenta per quella persona lo stare male e che cosa significa chiedere aiuto. C’è ancora del pregiudizio verso il mondo “psico”: “non sono matto, non ho bisogno dello psicologo” vi può rispondere qualcuno associando la sua sofferenza a una lettera scarlatta. Ma non è solo questo.
A volte l’idea di cambiare, per quanto si stia male e lo si desideri, fa anche paura. Spesso si tratta di una paura poco definita, difficile anche da mettere a fuoco e tanto più da tradurre in parole. Fa paura, a volte, pensare a come sarà la vita diversa da così – alla fine con i propri problemi si impara anche a convivere e a muoversi da lì si può avere la sensazione di andare a rompere un equilibrio, per quanto precario sia.
Oppure può fare paura pensare a come potrà reagire il proprio ambiente di fronte a un cambiamento: ci saranno ancora? Mi vorranno ancora bene? O, magari, ritornerò ad essere invisibile?
Altre volte è l’idea stessa di chiedere aiuto a mettere in difficoltà: non è che se ho bisogno di aiuto significa che da sola non ce la faccio e avrò bisogno di una stampella per sempre? Che succede se mi apro e non vengo capito, o se vengo addirittura deriso? E così via.
Ho voluto utilizzare questi esempi per mettere in luce come alla domanda iniziale non sia possibile rispondere in modo generico e generalista. Per avere la speranza di dire qualcosa di significativo per l’altro occorre partire dalla comprensione del mondo di quella specifica persona e degli ostacoli che non le permettono di chiedere un supporto, non sicuramente dalla critica del suo modo di vivere o dallo sminuire le sue scelte.
Quasi sempre, infine, serve del tempo per maturare una decisione così importante come il prendersi cura di sé. Forse, al di là di tutti i discorsi che possiamo fare, il nostro alleato migliore è l’esempio in prima persona: la testimonianza che, lavorando su se stessi, la vita può essere migliore di così e che tutti meritano di darsi una possibilità di realizzarsi.