Come dovrebbe essere organizzata la scuola? A quali principi ispirare la didattica? Come intendere la conoscenza, e quale immagine dello studente dovrebbe trasparirvi? Quali discipline andrebbero incluse nei programmi scolastici? Quali tecniche utilizzare, per quali scopi?
Queste sono solo alcune delle domande attorno a cui si sviluppa, da sempre, il dibattito sulla scuola. Esse sollevano questioni fondamentali e prioritarie quando si parla di istruzione: se da una parte le risposte sono cambiate man mano che la cultura si è trasformata, dall’altra questi interrogativi sono rimasti, quasi a rappresentare una specie di bussola che, passo dopo passo, guida il “fare” di chi lavora a scuola o con la scuola.
A queste domande ha provato a rispondere anche Silvio Ceccato, eclettico studioso della mente e dei suoi significati, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita.
Egli sostiene che sussista una differenza fondamentale tra una scuola che si propone di trasmettere una conoscenza già data e articolata, al fine di accumulare più sapere possibile, e una scuola in cui l’attenzione viene posta innanzitutto sulle operazioni attraverso cui la nostra mente conosce il mondo che ci circonda, facendolo proprio. Nel primo caso si rischia di vedere l’allievo come una specie di “contenitore” passivo di idee e nozioni, dimenticandosi come egli sia – sempre – il costruttore delle proprie conoscenze.
Probabilmente nella riflessione pedagogica di Ceccato erano ancora vivi i ricordi di quando, da bambino, era stato obbligato a imparare a memoria le definizioni del sussidiario senza porsi troppe domande: i suoi dubbi venivano risolti dagli insegnanti con uno sguardo di disapprovazione o con un “sei troppo piccolo per capire”. Egli si ricordava bene quanto ci si può annoiare quando la sensazione è quella di dover ripetere dogmaticamente qualcosa che non interessa, e quanto invece sia meraviglioso trovarsi di fronte a qualcosa che ci appassiona:nessuna gioia è più grande del sentire la propria mente che si espande.
A partire dalla propria esperienza personale e come insegnante, Ceccato fissava tre principi attorno a cui dovrebbe costruirsi un metodo didattico che, a qualunque livello di studi, voglia essere significativo ed efficace.
1. Non rompere il legame con la vita quotidiana: “si parta dal quotidiano, che è sempre un fare della mente, e si torni al quotidiano, dopo ogni escursione specialistica”. La conoscenza, infatti, affonda le radici nella propria esperienza. Ad esempio nel definire i concetti di pesante e leggero l’insegnante può partire dal vissuto e dagli esempi degli alunni, aiutandoli a capire che nell’uno e nell’altro caso si tratta sempre di un rapporto tra due oggetti, o tra un oggetto e la persona che lo soppesa: ciò che è pesante per me può essere leggero per te. Oppure sono gli alunni stessi che, osservando quello che accade intorno a loro, pongono domande all’insegnante: anche in questo caso il suo ruolo è di guidare la curiosità della classe verso l’esplorazione di certi fenomeni, siano essi di carattere scientifico, linguistico, etico.
2. Favorire una partecipazione attiva, che vada al di là della semplice memorizzazione. Ognuno di noi sa che, se non viene in qualche modo coinvolto nel processo di apprendimento, in testa rimane ben poco di quello che viene spiegato. In un certo senso ogni nozione e ogni discorso vengono fatti, disfatti e rinnovati sia da chi li produce sia da chi di volta in volta li fa propri:il bambino e il ragazzo si appropriano del sapere nello stesso modo in cui si sono appropriati dell’andare in bicicletta, ovvero facendone esperienza. Perciò l’insegnante dovrebbe sempre invitare i suoi alunni a verificare con i propri occhi l’esattezza di ciò che propone, a fare domande e a coinvolgersi nel dibattito, perché la discussione vivifica e rende più personale l’impegno. Apprendere diventa così una storia scritta (almeno) a quattro mani: quelle dell’insegnante e quelle dell’alunno.
3. Non proporre niente che vada al di là della comprensione del discente e del docente. Nel primo non dovrebbero crearsi impressioni di inferiorità, come nel caso dello studente che si convince di non essere portato per la matematica, mentre il secondo non dovrebbe evitare le domande per lui “scomode” con atteggiamenti di superiorità o liquidandole frettolosamente.
Non si tratta di idee del tutto nuove, ricorda Ceccato: molti pedagogisti del passato hanno delineato delle proposte simili. Piuttosto, per l’insegnante, l’educatore, il formatore la sfida è trovare la strada per metterle in pratica.
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