È mercoledì pomeriggio, entra l’ultima persona prevista per la giornata. È la terza volta che ci vediamo e a differenza degli altri due colloqui, dopo essersi accomodata sulla sedia, mi guarda dritta negli occhi e mi chiede: “ora che le ho detto tutto, si sarà fatta un’opinione: cosa pensa di me?“.
Mi prendo un secondo per raccogliere le idee. È una domanda importante: una persona va nello studio di un professionista, che non conosce se non magari di nome o di fama, si apre con lui al punto da permettergli di vedere anche le parti più fragili e sofferenti di se stessa, e desidera capire che effetto ha avuto tutto questo sul terapeuta.
Eppure…. eppure. Mi sembra che questa domanda contenga anche altro. Nel primo colloquio mi aveva confidato che era la prima volta che parlava di “certe cose” con qualcuno; le avevo chiesto come mai e lei mi aveva risposto che era sicura che gli altri, sapendole, avrebbero pensato che non era la brava persona che sembrava. Magari non le avrebbero detto niente in faccia, ma le cose con loro sarebbero drasticamente cambiate, avrebbe perso la loro stima e un po’ alla volta i rapporti si sarebbero sfilacciati. Ricordo di averle rimandato che doveva essere molto faticoso vivere così, con un grande segreto nel cuore, con la sensazione di non poterlo condividere con nessuno; e pensavo al privilegio e alla fiducia che mi aveva accordato raccontandosi proprio a me. So bene che, anche se le persone scelgono di iniziare una terapia per risolvere i loro problemi, svelarsi davanti a qualcuno non è mai né scontato né semplice e richiede da parte del terapeuta la capacità di creare un ambiente accogliente, intimo e non giudicante. Mi domando quindi se la sua domanda di oggi non contenga anche il timore che, ora che siamo andate oltre la superficie, io possa pensare male di lei e in qualche modo allontanarmi: la sua paura più grande.
Lo verifico chiedendoglielo direttamente e le esprimo il desiderio di essere sicura di aver capito bene cosa intende per rispondere alla sua domanda. Lei scoppia a piangere, riuscendo a dire tra le lacrime “magari pensa che non sono normale, che sono un enorme sbaglio”.
Ecco il punto, mi dico. Ci guardiamo, sento che siamo sul pezzo, insieme. Un po’ alla volta le lacrime si diradano, il respiro torna regolare. Allora le dico che non sono sicura di poterle dare la risposta che si aspetta, se quello che desidera è una valutazione di se stessa: semplicemente non penso a lei in termini valutativi, normale o non normale, giusto o sbagliato. “Penso che ascoltare ciò che mi ha raccontato mi abbia aiutato a conoscerla un po’ meglio” aggiungo cogliendo il suo sguardo perplesso. “Quello su cui sono concentrata è comprendere insieme a lei quello che sta vivendo. E se uno cerca di capire, non può contemporaneamente valutare“.
Annuisce, mi guarda attenta. “Far salire a bordo un’altra persona, fidarsi di lei, comporta dei rischi. A questo punto sarei io a non essere contenta di me stessa se fossi concentrata più sulle cose giuste o sbagliate che fa senza cercare di capire che senso ha per lei farle o non farle. Non renderei giustizia allo sforzo che sta facendo! Dagli altri si aspetta di essere giudicata, nel bene o nel male, e magari qualcuno lo farà anche, ma non c’è forse il rischio di attribuire loro un’idea prima ancora di sentire cos’hanno da dire? Non si perde qualcosa, la loro voce, in questo modo?“
“Penso che siano gli altri, ma sono io la prima a giudicarmi” commenta pensierosa, come per spiegarlo a se stessa. Tutto d’un tratto si illumina in un sorriso, divertita: “Sono piuttosto brava in questo, non crede?”
Le sorrido anch’io: “Le va di lavorarci su?”
Il racconto è frutto della fantasia dell’autrice. Ogni riferimento a fatti e persone realmente accaduti è puramente casuale.
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