Visto l’interesse e il movimento suscitato dai contenuti che ho postato su Facebook e Instagram tratti dal convegno “Alla ricerca di significato. Approcci per la gestione del lutto” di venerdì scorso, ho deciso di scrivere un articolo che potesse rispondere alle domande di chi mi segue e mi legge. Penso che anche questo sia un modo per portare la psicologia alle persone, perché tutti abbiano la possibilità di avere corrette informazioni e di assaggiare il valore che questa disciplina può portare concretamente nella vita di ognuno.
Una precisazione: in questa sede le risposte non possono che essere generali, perché non conosco la storia personale da cui sono scaturite. Perciò non possono essere intese come sostituto di una consultazione psicologica vis-a-vis in cui cliente e terapeuta possano collaborare per la comprensione profonda e personalizzata dei vissuti e dei significati relativi al lutto e/o alla perdita.
Fatta questa doverosa introduzione, via con le domande e le risposte.
In letteratura psicologica si possono trovare numerosi modelli che descrivono il lavoro di elaborazione del lutto: sì, perché si tratta di un vero e proprio lavoro psichico che può essere svolto con più o meno consapevolezza.
È interessante come tutti i modelli esistenti descrivano questo processo come un susseguirsi di fasi, ognuna delle quali è caratterizzata da una specifica emozione e da uno specifico compito, e che ci siano pochissime differenze tra le fasi descritte dai diversi autori.
John Bowlby, ad esempio, ne descrive quattro:
– la fase del torpore, immediatamente successiva alla morte della persona cara. È la fase dello shock, della disperazione acuta e dell’incredulità. Molte persone possono raccontare di non capacitarsi che colui o colei che fino a poche ore prima era con loro non ci sia più, e di ritrovarsi a pensare che possa rientrare dalla porta da un momento all’altro. Questa può essere vista come una difesa che aiuta a tollerare una realtà altrimenti troppo dolorosa;
– la fase dello struggimento: può insorgere disorientamento, rabbia, sensazione di impotenza rispetto a uno scorrere del tempo ineluttabile che porta via ciò che vi è di più caro. Ma questo è il momento anche del ricordo e chi è vicino alla persona in lutto può essere d’aiuto stimolando storie e racconti della loro vita insieme;
– la fase della disperazione: i sentimenti dolorosi si acuiscono, ma questo è segno anche che la persona inizia a rendersi conto della perdita e può essere l’inizio del processo di accettazione;
– la fase della riorganizzazione: è un momento delicato e può richiedere molto tempo. Prevede la “ristrutturazione” di una vita e di una progettualità nuove, in cui è frequente (ma non obbligatoria) la sensazione che la persona che è mancata continui a vivere nei nostri gesti. Si ritorna a investire nel futuro, tornando alla vita.
La successione di fasi descritta dagli autori richiama un’esperienza abbastanza comune, perché il lutto e la sua elaborazione sono un evento universale, forse una delle poche cose che accomuna tutti gli esseri umani in tutti i tempi e in tutti i luoghi.
Tuttavia ci sono sempre delle differenze individuali: io non ho mai conosciuto una persona in lutto che viva esattamente l’esperienza di un’altra. Questo perché ognuno di noi ha una relazione unica e insostituibile con la persona che non c’è più, frutto di una storia personale e originale con lei: possiamo ipotizzare che la morte di un genitore sia un evento importante per tutti, ma ciascuno la vivrà in modo diverso, perché diverso è il significato che attribuiamo alla perdita e diverso è il vuoto che lascia nella vita di ognuno.
È fondamentale, quindi, rispettare il modo personale di vivere un lutto, senza cedere alla tentazione (né con gli altri né con noi stessi) delle semplici equazioni come “non piango = non ci tengo” o “sono arrabbiato = non gli/le volevo bene”.
Questa è una domanda che trovo particolarmente delicata e su cui i vari ricercatori non sono sempre concordi. C’è chi sostiene che un lutto può dirsi superato quando si è capaci di “lasciare andare” la persona defunta, ma le più recenti riflessioni cliniche e ricerche sperimentali si concentrano sulla possibilità (e sull’importanza) di sentire un legame che continua. Sentire la presenza della persona scomparsa, parlarle, chiedersi cosa ci direbbe in questa situazione se fosse qui, parlare di lei/lui sono tutti modi di mantenere questo legame e di sentire che chi non c’è più può continuare a vivere dentro di noi, nei nostri gesti e nelle nostre scelte. Questo può aiutare la persona in lutto a dare un senso a ciò che inizialmente sembrava non averlo e che ha scosso dalle fondamenta il nostro mondo.
Spesso, di fronte alla morte, si crea una specie di taboo di cui sembra non si possa parlare né con gli altri né, a volte, con se stessi. Ma non parlarne non significa aver superato la perdita, può anzi contribuire a creare la sensazione che la morte abbia spezzato quella relazione magari non sempre facile, magari non sempre lineare, ma che nel bene e nel male era importante per noi.
Al contrario, alla fine di un percorso di elaborazione di un lutto, la sensazione è quella di poterne parlare e di essere cresciuti non nonostante la perdita, ma attraverso essa.
Esistono lutti più impegnativi di altri? Quando chiedere aiuto? Come si lavora sul lutto in psicoterapia? Puoi trovare le risposte a queste domande nella seconda parte di questo articolo.
Il contenuto dell’articolo è puramente divulgativo e non si sostituisce al processo diagnostico e terapeutico svolto con uno psicoterapeuta esperto. Se ritieni di aver bisogno di aiuto, contattami via mail o direttamente al telefono.