Della morte si fa fatica a parlare, anche ora.
Entrare nel reparto di rianimazione di un ospedale – lo sa bene chi l’ha dovuto fare – è un’esperienza che non si cancella più dalla mente e dal cuore. Il rumore sordo e ritmico dei respiratori, il suono dei macchinari che sembra di essere in una navicella spaziale, ma invece è proprio un ospedale; l’odore del disinfettante, il groviglio di tubicini che entrano ed escono da un corpo inerme che per te però è una persona, una storia, un intreccio di sentimenti e di parole e di silenzi.
C’è chi pensa che evitare questo strazio alleggerisca l’enorme dolore della perdita, qualora si verifichi. È una scelta comprensibile e sempre legittima, ma chi lavora con le persone in lutto sa che, se possibile e per quanto sia lacerante farlo, aiutare le persone a darsi la possibilità di dare un ultimo saluto a colui o colei che se ne sta andando può essere cruciale nell’elaborazione successiva della perdita.
Non mi fraintendete: non fa meno male, non alleggerisce il vuoto che rimane, non rende la morte più sopportabile. Un lutto è sempre un lutto e non c’è modo di renderlo meno doloroso o di “farlo passare” più velocemente, soprattutto se si tratta di quello che tra addetti ai lavori si chiama “lutto complicato”. Semplicemente poter dire addio a chi fino al giorno prima ci era a fianco permette a noi stessi di rappresentarci quello che sta succedendo. Il dolore “si aggrappa” a un’esperienza e così prende una forma, che è il primo, necessario passo per elaborarlo.
Spesso poi si tratta di un’esperienza comunitaria di condivisione (la visita dei parenti, il rosario, il funerale, la sepoltura): dei riti di cui l’essere umano ha fatto uso sin dalla notte dei tempi nel tentativo di soffrire di meno.
Avendo lavorato con tante persone in lutto so quanto è importante tutto questo per ricostruire un senso dopo che quello che sembrava averlo, un senso, se n’è andato. Per questo il mio pensiero in queste settimane va spesso a chi – magari in isolamento, malato a sua volta e a sua volta spaventato dalla prospettiva della morte – ha perso un coniuge, un genitore, un figlio, un amico, e non ha nemmeno potuto dirgli addio.
E penso a chi, senza riuscire a dirlo a nessuno (perché della morte si fa fatica a parlare, anche ora), ha paura che questo possa succedere anche a lui o lei, o a un proprio familiare. Si tratta di un timore spesso presente in alcune forme d’ansia, ora più che mai amplificato dalle notizie rimbalzate da media e social.
Non esistono ricette in situazioni come queste, non esistono facili risposte a domande esistenziali come quelle sulla vita e sulla morte, o “prontuari” di comportamento per stare subito meglio. Ogni lutto – anche quelli cosiddetti “anticipatori”, cioè l’anticipazione della perdita prima che avvenga – si innesta in un mondo unico di storie, speranze, progetti, paure e come tale va accolto, compreso ed elaborato in modo personale e personalizzato.
Stare chiusi in casa può talvolta amplificare la sensazione di spaesamento e di vuoto, spingendo a chiudersi ancora di più. Eppure, se state vivendo una di queste situazioni, chiedere aiuto non è solo possibile ma necessario, tanto più in questo momento in cui tante certezze personali e sociali vengono a mancare.
Della morte e della paura di morire si fa fatica a parlare, anche ora, ma mai come adesso abbiamo bisogno di farlo.